In questi giorni Castelnuovo di Porto (il paese dove vivo) é percorso dall’annuale fremito della raccolta delle olive per la produzione di olio. Stessa cosa accade nei paesi vicini, e anche in quelli piu’ lontani, fino in Sabina, ai confini con l’Abruzzo o a nord verso la Toscana. Si tratta di un rito, un’usanza che travalica la stretta funzione di produrre l’olio, per assumere connotazioni culturali che hanno lontane e anzi lontanissime radici. Ne ho gia’ scritto negli anni scorsi, chi volesse rileggere l’articolo clicchi QUI.
Sabato scorso, complice il fatto che era il primo giorno di sole dopo alcuni piovosi e tutti ne approfittavano, ho fatto un giro di varie e diverse “stazioni” nei diversi uliveti, dove amici o conoscenti, a volte con tutta la famiglia, andavano raccogliendo olive, segando rami, e riempiendo cassette, secchi, recipienti vari per portarli al frantoio. Mentre passavo da una “stazione” a un’altra mi é venuto da pensare che anche la raccolta delle olive, che é un gesto apparentemente semplice e senza margine creativo, invece rifletteva e mostrava la personalita’ di ciascuno: c’era chi aveva ordinatamente steso i teli seminuovi (perché l’anno prima li aveva riposti ben piegati) e aveva una specie di macchinetta elettrica che agitava i rami e accelerava la caduta delle olive; c’era chi andava avanti a mano, chi si arrampicava sugli alberi con o senza la scala, chi le olive le lasciava sui rami e raccoglieva solo quelle che gli servivano per il suo olio personale, chi invece prendeva la raccolta come un lavoro per fare olio da vendere, e cosi’ via.
Piu’ d’uno, vedendomi arrivare, visti i luoghi e vista l’occasione, mi ha avanzato – seppure in modo informale – quesiti di tipo urbanistico, del genere: “Ma ce la potro’ mai fare una villetta qui, nell’uliveto di mio nonno?”; oppure: “Quella vecchia baracca esistente non potrebbe diventare una casetta?”. Ma mentre cercavo la risposta piu’ precisamente evasiva, immaginavo gli ulivi sradicati, e mi rendevo conto che per qualche diavolo di motivo le persone “normali”, quelle voglio dire che non si occupano per lavoro o per studio di territorio o di pianificazione, ancora strettamente connettono il suolo, il “lotto” concretamente identificato, col permesso o col divieto di concretamente costruire proprio li’. La colpa (se vogliamo cercarla) sara’ dei condoni che da quasi trent’anni sono la base culturale della politica territoriale. O forse della lentezza e arretratezza delle amministrazioni pubbliche, pochissime delle quali hanno introdotto meccanismi perequativi nei loro strumenti urbanistici. Di fatto c’é ancora, e molto radicata, la splendida idea della rendita fondiaria, ovvero dell’incremento di valore connesso al passaggio del singolo lotto dalla destinazione agricola a quella edificabile.
Si tratta purtroppo di concetti ottocenteschi. Perché poi nel secolo scorso, nei suoi decenni finali, vennero evoluti e messi a punto i meccanismi perequativi che, seppure di non semplice applicazione, rappresentano un po’ l’”uovo di Colombo” della pianificazione; in grado di distribuire la rendita – non piu’ fondiaria, ma territoriale – a tutti, e al contempo di evitare il consumo di suolo e quindi evitare l’abbattimento degli ulivi e la scomparsa degli uliveti di cui sopra. (Con tutto quello che comporta, anche in termini sociali e culturali). Il problema é che difficile spiegare soprattutto il passaggio dalla trasformazione di un suolo, che porta a un incremento di valore visibile, in quanto proprio li’ viene fatto l’edificio, alla trasformazione di un ambito territoriale, che lascia inedificato il singolo lotto e porta ad incassare un diritto edificatorio, che é qualcosa di intangibile, seppure convertibile in denaro. É un po’ come il passaggio dai risparmi di una volta, tenuti sotto al materasso o sotto la mattonella, a quello in titoli, azioni, warrant. Roba concreta contro roba di carta.
Di fatto il ritardo, nonché la non linearità delle riforme sull’assetto del territorio italiano (perché ogni tanto spunta fuori un Onorevole Lupi che propone una legge che fa macchina indietro di 60 anni) cagionano uno spontaneo e comprensibile ancoraggio ai vecchi e tradizionali principi di crescita urbana, nei quali la perequazione e i “diritti edificatori” non sono compresi.
Ma il mondo – a prescindere anche dall’Italia che vive un brutto periodo storico – va avanti lo stesso, frenando (in occidente) il consumo di suolo, accorpando volumetrie, pianificando per ambiti territoriali omogenei. Gli ulivi lo sanno.
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