La grande migrazione di abitanti da Roma verso i territori immediatamente esterni al Raccordo anulare, in atto da alcuni decenni e ultimamente ancora aumentata, può essere assimilata un po’ fantasticamente all’epopea del west americano, quando migliaia di cittadini si spostarono dalla costa atlantica verso l’ovest, e andarono a occupare e urbanizzare le terre popolate da poche tribù di indiani.

Naturalmente l’America di 200 anni fa e il Lazio di oggi non sono paragonabili, le ragioni e le dimensioni dei fenomeni sono diverse, e soprattutto la gente dei nostri paesi non è affatto selvaggia, come invece erano considerati gli indiani. Tuttavia tra le due cose un piccolo punto in comune può essere trovato: allora come oggi la cultura e il modo di vivere dei nativi vanno a sparire, sopraffatti da usi e costumi, linguaggi e strutture economiche importati da fuori.

Se vogliamo partire dal presupposto che ogni cultura, a prescindere dal numero dei suoi esponenti, ha uguale dignità e diritto di esistere, appare giusto che la questione vada messa in evidenza, e non eventualmente sottaciuta come se si trattasse di un fatto ineluttabile, quasi un prezzo da pagare, seppure con rammarico, all’evoluzione dei tempi. Anche perché, mentre i coloni americani si mossero in variopinte carovane per conquistare il territorio, e non certo per vivere insieme agli indiani, chi oggi fugge via da Roma lo fa anche e soprattutto per trovare migliori condizioni sociali e culturali; in un’area, dalla Cassia alla Flaminia, dove parrebbe naturale imbattersi in una identità radicata e identificabile, nella quale chi viene possa a sua volta riconoscersi.

Bisogna dire che purtroppo le cose non vanno in questa direzione. Il vecchio edificio della cultura e della economia locale risulta ormai quasi del tutto smantellato dagli eventi. Rimane la sua ossatura, la struttura portante, ancora oggi robusta, che riemerge faticosamente in determinate occasioni, per merito di una rete comunicativa, all’apparenza invisibile, che i nativi hanno spontaneamente creato tra loro e che, detto per inciso, neppure il più esperto organizzatore di reti futuribili avrebbe potuto costruire. Tutto il resto è uguale ad ogni altro luogo, in un processo di omologazione che riguarda tutto il pianeta, e sul quale non staremo qui a disquisire.

Sta di fatto che nei nostri paesi si scorgono durante l’anno alcune tracce indiane: al momento della raccolta delle olive, o quando si fa il vino, o osservando la cura degli orti. Oppure negli allevamenti di animali, cavalli e vitelli “da carne”. Nel periodo della raccolta delle olive, per fare un esempio, viene coinvolto tutto il paese, figli e i nipoti rientrano da Roma, a volte a malincuore e discutendo, ma poi con amici e parenti tutti si aiutano reciprocamente a scuotere alberi e stendere teli, con un atteggiamento solidale del tutto ignoto a chi abita a Roma. Fare l’olio è un rituale ancora  scrupolosamente osservato, ma sono incombenze che, come si sa, vanno a sparire e che si fanno senza conteggi economici perché, se si sommassero tutte le spese, e il tempo necessario, e il lavoro di tutti eccetera, verrebbe fuori che un litro d’olio costa il doppio di quello più caro del supermercato, e bisognerebbe dar ragione ai critici disillusi che ogni anno dicono di lasciar perdere.

“Troppo vicini a Roma”, si sente dire da chi ritiene ineluttabile che l’onda lunga della metropoli, alla ricerca della sua fisiologica espansione, non possa perdere nel tragitto nessuno dei suoi connotati negativi, e non possa lasciare spazio alla vita e alle attività esercitate da sempre, neppure rivisitate e migliorate. E proprio qui, in questa programmazione complessa, si gioca la sopravvivenza dei nostri indiani e con loro, in certo senso, di tutti noi. E neppure è scritto che la partita sia persa in partenza, se si considera che le strutture amministrative regionali, statali ed anche europee sono tutte orientate alla salvaguardia delle culture locali, mediante leggi finanziate e strutture di consulenza funzionanti. La difficoltà ad imboccare la giusta direzione vincente viene (salvo encomiabili eccezioni) dal livello politico locale dove, dopo il lungo processo di decentramento amministrativo attuato in tutta Italia, si è concentrato ogni potere di pianificazione e gestione territoriale, sociale ed economica. Ma purtroppo nel decentrare non si fece distinzione tra comuni grandi e piccoli, rurali o suburbani, con la conseguenza che quelli piccoli e piccolissimi vanno a ritrovarsi in campi mai esplorati, con problemi più grandi di loro e, specie se stanno ai margini di una grande città in turbolenta espansione, rischiano di non avere alcuna possibilità di indirizzare e decidere il loro stesso futuro.

Il consolidamento e il rilancio in termini aggiornati di quella cultura non “indiana” ma “nostrana”, con tutte le sue implicazioni economiche e sociali, mediante le necessarie infrastrutture e aiuti, va quindi posto come base irrinunciabile di ogni possibile evoluzione dell’area che va dalla via Cassia alla Flaminia, accompagnato da un processo di condivisione che ascolti tutta la cittadinanza, e nel quale gli abitanti originari abbiano tutte le possibilità di espressione e presenza. Per evitare che vada a finire (figurativamente) come nel vecchio west, e senza neppure poter vedere la campagna trasformarsi in una avanzata California. E dover rimanere invece rassegnati ad assistere ad una progressiva indifferenziata urbanizzazione periferica uguale dappertutto.

Pubblicato su “Nerosubianco” di febbraio 2008

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