di Loretta Peschi *
Un giorno qualsiasi d’estate, in un luogo qualsiasi d’Italia, lontano dalle patrie coste, arrivano in 742. Tutti insieme, tutti neri, quasi tutti maschi, vestiti in modo improbabile, con un’espressione un po’ stupita, un po’ scomposta e un po’ stanca.
Chi sono costoro? E perché stanno qui? Se ne andranno presto? Aumenteranno? Saranno pericolosi?
Queste righe potrebbero sembrare l’incipit di un romanzo, se non fosse che il giorno qualsiasi d’estate è davvero esistito – era il 23 giugno 2008 – e che il luogo qualsiasi d’Italia è reale – sta nel Comune di Castelnuovo di Porto, complesso della Protezione Civile alla Traversa del Grillo.
Sì, sono arrivati in 742 dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Nigeria e da altre parti dell’Africa martoriate da guerre, guerriglie, soprusi, assenza di legalità, negazione dei diritti umani più elementari, per non parlare della povertà e delle malattie. Non si tratta di semplici migranti irregolari (o clandestini che dir si voglia), sebbene con questi abbiano in comune le modalità di fuga e di approdo sulle coste europee. Si tratta di persone che hanno scelto di non farsi ammazzare dai signori della guerra che, armati (chissà da chi) di tutto punto, scorrazzano nei loro Paesi; che al grigio e saggio richiamo di “fatti i fatti tuoi e nessuno ti dirà niente” hanno preferito il richiamo, forse meno saggio ma certamente più radioso, della dignità umana e della libertà. E per questo hanno rischiato.
Prendiamo Fortunato (nome di fantasia), che incontriamo sulla Traversa del Grillo ai primi di settembre. Ha 25 anni, viene da Mogadiscio, parla un po’ di inglese. Si vede subito che non è un pezzente, ha rispetto per la sua igiene personale, accetta di conversare con noi, si sforza di trovare le parole in inglese per farci capire al meglio il suo pensiero, è gentile. E’ scappato semplicemente perché non vuole fare la guerra e vuole vivere in pace. La sua famiglia ha venduto persino un materasso per finanziare il suo viaggio. Ha traversato mezza Africa fino ad arrivare in Libia, da dove si è imbarcato su una carretta del mare alla volta dell’Italia, Isola di Lampedusa. Ci ha messo un anno. Appena arrivato è stato condotto nel Centro di Permanenza Temporanea (CPT) dove ha immediatamente presentato istanza di asilo politico in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Dopo le verifiche del caso effettuate dall’Amministrazione italiana, è stato trasferito nel CARA di Castelnuovo di Porto. Ed eccolo qui, insieme ad altre 741 persone nelle sue stesse condizioni. Mangia 3 volte al giorno, ha abiti modesti ma decenti, la sua famiglia gli manda 25 dollari ogni mese o quasi che gli servono per comprarsi una bibita ogni tanto (non birra – è di religione islamica) e telefonare a casa, a Mogadiscio, da un “phone center” che ha trovato sulla Via Tiberina, non lontano dal CARA.
La sigla CARA sta per “Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo”; è una struttura formalmente facente capo al Ministero dell’Interno, gestita dal Corpo Militare della Croce Rossa Italiana (chi volesse saperne di più sul Corpo Militare della Croce Rossa Italiana può visitare il sito internet http://www.cri.it/componenti/index.html
Il CARA di Castelnuovo di Porto si trova nel complesso che fu già della Protezione Civile. Decidiamo di visitarlo per capire e per raccontare. Chiediamo i permessi del caso e li otteniamo nelle 24 ore. Arriviamo nel complesso in un pomeriggio afoso e senza una nuvola. Entriamo senza sapere troppo bene dove andare. Il luogo sembra una landa desolata e deserta. Ma, girato un angolo, vediamo un edificio con le bandiere italiana ed europea. La Direzione deve essere qui, pensiamo. Lasciamo l’automobile e facciamo un giro nel piazzale antistante l’edificio. Vi sono ragazzi che, seduti in terra, giocano a scacchi, altri che giocano a pallone, altri ancora che fanno capannelli. In tutto una cinquantina di persone con pochissime donne. Poco lontano dal piazzale, sotto sparuti e rari alberi, gruppi di 3-4 ragazzi stanno accovacciati all’ombra, proprio come facevano a casa loro. All’interno, in una specie di hall, intravvediamo una ragazza italiana che sta insegnando la nostra lingua a una decina di ragazzi presumibilmente somali. Più in là, un ben più nutrito gruppo di persone vagamente sonnecchianti, nella penombra guarda una puntata di “Sandokan” su un maxi schermo.
Incontriamo il Capitano Massimo Ventimiglia che dirige il Centro con l’ausilio di una ventina di militi, tutti rigorosamente in abito militare da campo. In tre quarti d’ora ci spiega interessanti dettagli.
Ci dice che tutte queste persone – che, tiene a precisare il Capitano, sono persone per bene, normali, spesso istruite – sono in attesa di essere ascoltate dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale (già Commissione Territoriale per il Diritto di Asilo) facente capo al Ministero dell’Interno (nel 2007 sono state 14.000 le persone che hanno richiesto asilo all’Italia); ciò dovrebbe avvenire entro 60 giorni dalla trasmissione della richiesta da parte della Questura alla Commissione stessa. Per chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato occorre “presentare una domanda motivata e, nei limiti del possibile documentata, con l’indicazione delle persecuzioni subite e delle possibili ritorsioni in caso di rientro nel proprio Paese” si legge nel sito internet del Ministero dell’Interno. Se la richiesta è accolta, la persona riceve lo status di rifugiato e ha diritto a soggiornare e lavorare in Italia; se la richiesta è respinta, la persona deve lasciare il territorio italiano.
In questo CARA vi sono – dicevamo prima – 742 persone di cui 60 donne, che ricevono tre pasti al giorno, abbigliamento, cure mediche se necessarie, e hanno diritto di uscire dal Centro purché rientrino la sera; chi non rientra perde lo status di “richiedente asilo” e sarà considerato immigrato illegale. Il CARA offre alcuni altri servizi come le attività sportive e l’apprendimento della lingua italiana. Ma non si vedono altre iniziative che favoriscano una migliore conoscenza dell’Italia. E la giornata è lunga … in qualche modo bisogna pur farla passare. Se non c’è altro da fare, non ci si stupisca se qualcuno, piuttosto annoiato e magari non proprio lucido, dà vita a una maxi rissa all’interno del campo e se qualcun altro, mentre passeggia sulla Traversa del Grillo, importuna le ragazze. Ragazze italiane, rumene, moldave, albanesi abitanti nel nostro Comune, che hanno preso un gran paura quando sono state importunate, a volte in modo così pesante da far loro temere il peggio. Dopo una maxi rissa e dopo una molestia non lontana dalla violenza sessuale, ora il campo e i suoi dintorni sono presidiati dall’Esercito italiano (pochi uomini con un piccolo automezzo blindato) insieme a Carabinieri e Polizia Municipale di Castelnuovo, e tutto sembra più “sicuro”. Ma sarà veramente tutto più sicuro? La risposta, naturalmente, dipende dal concetto di sicurezza che si ha. Se per sicurezza si intende “non disturbare” allora certamente il presidio militare può essere adeguato. Se invece per sicurezza si intende un modo di convivenza equilibrato, dove tutti i diritti sono rispettati e i doveri sono vissuti come condizione per stare in pace dentro una comunità (e non come imposizione incomprensibile), allora bisogna pensare ad altre – complementari, se vogliamo – misure.
Per esempio, non sarebbe possibile utilizzare i 60 giorni di attesa per fornire a questi ragazzi e ragazze (l’età media è intorno ai 30 anni), spesso istruiti, una qualche conoscenza del nostro Paese reale (non quello che vedono in TV)? Potrebbero essere informati sulle reali possibilità di trovare un’occupazione, sul costo della vita, sulle nostre usanze (magari attraverso momenti festosi); potrebbero essere invogliati a raccontarci le loro storie personali, le loro favole, a farci ascoltare le loro musiche e i loro canti; eccetera. Nelle recenti legislature il Parlamento italiano ha stanziato dei fondi, destinati agli Enti Locali, proprio per sostenere questo tipo di iniziative e altre vòlte a favorire l’integrazione di quanti saranno riconosciuti aventi diritto all’asilo.
Ci è sembrato di capire che il CARA accetterebbe ben volentieri iniziative di gruppi di volontariato e della pubblica amministrazione castelnovese. Anche Fortunato.
- Loretta Peschi, cittadina Castelnovese, lavora come esperta nella cooperazione internazionale. Le foto sono dell’Autrice. Questo articolo è stato pubblicato anche da “Il Nuovo” di settembre 2008 (clik qui)